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Prato

Sono nato qui, a Prato, in via Trento, una tranquilla diramazione di via Zarini, una delle strade più importanti e vive della città. Al secondo piano, in casa. A quei tempi si faceva così. Era la casa di mia nonna, e lì, appena venuto al mondo, ho sentito per la prima volta il profumo dei bomboloni caldi della pasticceria Nunziati. Un profumo che non ho mai dimenticato, come un abbraccio che ti accompagna per tutta la vita.

Anche se il mio certificato di nascita dice “Prato”, i miei all’epoca abitavano a Calenzano. E così, nei documenti di residenza, da piccolo risultavo come “immigrato da Calenzano”. Basta poco, a volte, per sentirsi fuori posto. Ma io, dentro, mi sono sempre sentito pratese.

Venivo da una famiglia borghese, semplice, con poche pretese, ma ricca di valori veri: rispetto, dignità, amore per il lavoro e per le persone. La Prato in cui sono cresciuto era una città piena di energia. Si lavorava giorno e notte, a ciclo continuo, ma intorno al lavoro c’era tutto: la famiglia, la vita sociale, i sogni. E poi i locali, le discoteche, i bar sempre pieni… Prato sapeva essere anche leggera, viva, accogliente.

Questa città, che ha fatto del tessile la sua anima, era già allora un piccolo miracolo italiano. Una città che affonda le sue radici nel Medioevo, con un cuore operoso e uno spirito ribelle. Il Castello dell’Imperatore, il Duomo con i capolavori di Filippo Lippi e Donatello, il Centro Pecci per l’arte contemporanea… tutto racconta una storia di bellezza e ingegno.

I miei genitori non erano di qui. Mio padre veniva da Colle Val d’Elsa, mia madre da Latina, ma figlia di veneti trasferiti nell’Agro Pontino durante la bonifica voluta da Mussolini. E poi c’era il mio cognome, che ha una storia tutta sua: da Gazzei si trasformò in Odierna in una sola notte. Quando morì il padre, mio nonno prese il cognome della madre, Odierna, originaria di Sarno, perché i suoi genitori non erano sposati.

Così mi sono ritrovato con un cognome meridionale, in un periodo in cui bastava non avere un cognome che finiva in “i” per sentirsi un po’ escluso. L’ho vissuta con dolore, quella diversità. A casa si parlava un italiano corretto, educato, e non il dialetto stretto di Prato. Anche quello, in un bambino, può far sentire il peso della distanza.

Ma nonostante tutto, sono sempre stato felice. Davvero felice. Non avevamo soldi, ma avevamo tanto altro. Per me “senza” significava davvero “senza”, ma non mi mancava nulla di ciò che conta. Ero ricco, sì, anche senza soldi. Ricco di giochi all’aperto, di risate sincere, di sogni, di abbracci, di pane e zucchero. E quella, oggi lo so, era la più bella delle ricchezze.

Non mi sono mai lamentato, né ho cercato scorciatoie. Ma un giorno, ormai quasi maggiorenne, tornai a casa affamato. Aprii il frigorifero e c’era solo un uovo. Uno solo. Lo presi, lo guardai, e lo lanciai dalla finestra. In quel momento, con una fame che era anche rabbia e voglia di futuro, mi promisi che il frigorifero di casa mia non sarebbe mai più stato vuoto. E così è stato. E così sarà.

Figlio di magliai, ho imparato a dormire con il suono ritmico delle fronture che si muovevano notte e giorno. Era un sottofondo costante, come il battito di un cuore familiare. Le elementari furono un incanto, le medie un po’ confuse – l’età fa il suo – e le superiori le ho fatte in una scuola poco blasonata, ma ricca di umanità. Lì ho conosciuto persone splendide, che porto ancora con me.

Ciò che ho sempre amato di Prato era quella forza silenziosa che ti spingeva a costruire. Tutti potevano farcela, se lavoravano sodo. Ho conosciuto uomini e donne che con le mani e la testa hanno messo su case, magazzini, famiglie. Tutti lavoravano. Nessuno si tirava indietro.

Il sabato si andava a scuola, e davanti all’ingresso arrivavano gli industriali con macchinoni lucenti, ma l’aspetto era sempre semplice: ciuffi di filo sulle gambe, pantaloncini corti, e via a comprare il giornale prima di tornare in fabbrica. Alcuni di loro sono diventati nomi noti anche fuori città.

E poi ci sono i personaggi che Prato ha dato al mondo: Paolo Rossi, che da giovane vestì la maglia biancazzurra prima di diventare il campione del mondo che tutti conosciamo. Michelangelo Pistoletto, artista tra i più grandi della contemporaneità, legato al nostro Centro Pecci. E ancora, Roberto Benigni, che ha girato qui alcune scene de La vita è bella. O i Cecchi Gori, con le loro radici tra cinema e finanza.

Poi sono cresciuto. E, come accade a tanti, ho sentito che Prato mi stava un po’ stretta. Tutti conoscono tutti, tutti parlano di tutti. C’è un certo buonismo di facciata, spesso carico d’invidia. “È il figlio di…”, “è parente di…”. Le famiglie sono tutte intrecciate, e le parole volano leggere, ma a volte feriscono.

Eppure, a questa città devo tutto. Prato mi ha insegnato la grinta, il rispetto per il lavoro, per la dignità di chi fatica ogni giorno. Mi ha insegnato a rialzarmi, a non vergognarmi dei fallimenti, se vissuti con onestà. Mi ha insegnato a essere vero.

La mia Prato, quella degli anni ’70 e ’80, era un grande paese con l’anima di una città. Ricca, viva, sincera. Una Prato che non faceva male a nessuno, e che nel suo silenzio operoso, mi ha dato tutto quello che conta.

Di aneddoti ne avrei tanti, e magari, un giorno, ve li racconterò. Forse.